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È andato tutto bene (Tout s’est bien passé)

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È andato tutto bene (Tout s’est bien passé), il nuovo film di François Ozon, presentato in Concorso all’ultimo Festival di Cannes, uscirà al cinema il 13 gennaio.

È andato tutto bene, con Sophie MarceauAndré DussollierGéraldine Pailhas, distribuito da Academy Two e interpretato da Charlotte Rampling, Hanna Schygulla, Éric Caravaca, Grégory Gadebois, Jacques Nolot e Judith Magre, è tratto dal bellissimo libro di Emmanuèle Bernheim edito in Italia da Einaudi.

Il film tratta con intelligenza e un tocco di umorismo, senza mai scadere nel sentimentale, un tema di grande attualità e importanza, al centro di battaglie sociali e politiche anche nel nostro paese: l'eutanasia. Ancora oggi non abbiamo la possibilità legale di decidere quando porre fine alle sofferenze di un'esistenza senza dignità, che sia la nostra o quella dei nostri cari.

la sinossi

Emmanuèle racconta la propria storia con il padre che le ha chiesto di aiutarlo a morire. André (André Dussollier) è stato un cattivo padre. Ma è anche un uomo carismatico, dalla vita sentimentale brillante e burrascosa, curioso di tutto, un profondo amante della vita. Quando si ammala, la figlia Emmanuèle (Sophie Marceau) si precipita ad aiutarlo. André le fa un’ultima, difficile richiesta a cui Emmanuele non può dire di no.

L'INTERVISTA CON FRANÇOIS OZON

Come ha incontrato Emmanuèle Bernheim?

Ho incontrato Emmanuèle nel 2000, tramite Dominique Besnehard, che all’epoca era il mio agente.
Avevo girato i primi quindici minuti di Sotto la sabbia e le riprese erano ferme per problemi produttivi e finanziari. Non eravamo convinti né della sceneggiatura né delle scene girate. Dominique mi suggerì di incontrare una scrittrice che non conoscevo Emmanuèle Bernheim, per una ristesura della sceneggiatura. Pensava che sarebbe stata la persona giusta e aveva ragione: si creò subito una sintonia tra di noi e in seguito diventammo amici.
Avevamo gusti simili per quanto riguardava i film, gli attori e la loro fisicità e mi innamorai del suo stile di scrittura molto fisico, “ridotto all’ osso” per usare la sua espressione, uno stile che era simile a quello usato per scrivere le sceneggiature.

Quale è stata la sua reazione quando ha letto È andato tutto bene?

Mi ha inviato la bozza di stampa e mi sono commosso nello scoprire e nel condividere la sua esperienza con suo padre. Ho amato il ritmo, il tono, l’accelerazione finale, la suspense che lo rende quasi un romanzo giallo e l’ambiguo e ambivalente sollievo delle due sorelle per aver compiuto la loro “missione”.
Emmanuèle mi chiese se fossi interessato ad adattare il libro per il cinema. Ero sicuro che sarebbe potuto diventare un bellissimo film ma era una storia talmente sua che in quel momento particolare della mia vita, non riuscivo a vedere come avrei potuto farla diventare mia. Diversi registi mostrarono interesse per il libro e ci furono svariate offerte per i diritti. Lei mi tenne informato fino alla proposta di Alain Cavalier che sfortunatamente non fu in grado di realizzare il film perché Emmanuèle si ammalò di cancro. Cavalier riuscì comunque a tirare fuori da quell’esperienza nel 2019 un bellissimo documentario, Living and Knowing You Are Alive (Être vivant et le savoir).

Che cosa l’ha spinta ad adattarlo adesso?

La morte di Emmanuèle, la sua assenza, mi hanno fatto desiderare di essere ancora con lei. E forse anche, a livello personale, mi sono sentito pronto a tuffarmi nella sua storia. Mi è successo spesso con i libri che ho adattato che avessi bisogno di tempo per lasciarli maturare, per scoprire come farli miei. E volevo lavorare con Sophie Marceau. Ho pensato a lei per diversi miei film e ci siamo incrociati spesso ma non siamo mai venuti a capo di nulla. Intuitivamente sentivo che questo era finalmente il momento giusto, il progetto giusto. Così le ho mandato il libro di Emmanuèle di cui lei si è innamorata. E ho iniziato a scrivere la sceneggiatura.

Lei sta esplorando un problema sociale in questo film come ha fatto con Grazie a Dio ma il suo approccio questa volta è molto diverso. Qui sta usando un’angolazione più intima.

In Grazie a Dio sono partito da un’esperienza personale, ma il film si è subito allargato ad esplorare l’esperienza di un gruppo e l’aspetto politico dell’argomento. Qui, mi focalizzo sull’esperienza personale di Emmanuèle. Il film non diventa mai un dibattito sull’eutanasia. Ovviamente siamo tutti spinti a esplorare i nostri sentimenti e le nostre domande sulla morte ma quello che mi interessava sopra ogni altra cosa era la relazione fra il padre e le figlie.
Nel raccontare questa storia ho sentito il grande stress che Emmanuèle deve aver provato nell’affrontare una società che non ci permette di organizzare una morte desiderata in un modo legale e strutturato. Non credo che i figli o i cari della persona che desidera morire dovrebbero caricarsi di questo fardello con il senso di colpa che lo accompagna.

Come ha fatto ad adattare il libro?

Emmanuèle descrive le azioni in modo comportamentista. Il libro è pieno di dialoghi e discussioni quindi adattarlo è stato piuttosto semplice. Ma c’erano dei buchi nella storia, intuivo cosa potesse mancare ma non ne ero completamente sicuro. Così, proprio come ho fatto in Grazie a Dio, ho iniziato un’indagine personale, principalmente con i protagonisti della storia ancora in vita: il compagno di Emmanuèle, Serge Toubiana e la sorella Pascale Bernheim.
C’era un’assenza lampante nel libro di informazioni su Claude de Soria, la madre di Emmanuèle. L’unico punto debole del libro. Di questa madre sappiamo solo che era molto malata e cronicamente depressa.

Dal film veniamo a sapere che è un’artista.

Sono venuto a saperlo piuttosto tardi, dopo la morte di Emmanuèle. Claude de Soria era una scultrice importante, conosciuta nel mondo dell’arte. Fui sorpreso di sapere che c’era un’altra artista in famiglia oltre ad Emmanuèle. Pascale Bernheim mi diede un libro su sua madre e mi mostrò le sue opere e un documentario dove la vediamo lavorare con il cemento. Claude de Soria non intellettualizza né concettualizza mai le sue opere. Le evoca concretamente in termini organici, materiali. Emmanuèle faceva la stessa cosa con la sua scrittura. Il suo primo libro si intitola Il coltello a serramanico (Le Cran d'arrêt). Non ho potuto fare a meno di notare un riferimento alle sculture di Claude de Soria che hanno l’aspetto di coltelli o lame. Questo tramandarsi di immagini nelle loro opere ha nutrito la mia immaginazione relativamente alla famiglia e ha reso ancora più interessante il rifiuto di Emmanuèle che in casa non ha neppure una delle opere di sua madre.

Un’altra storia nel libro: l’enigmatico G.M. che nel film si chiama Gérard.

Nel libro tutti i personaggi hanno un nome definito ad eccezione del misterioso G.M che era l’amante di André. Non è mai piaciuto alle sorelle e questo era il loro nome in codice per lui: G.M. ovvero “grosse merde”. Emmanuèle era preoccupata da come avrebbe reagito e per questo non lo ha nominato nel libro e ha anche cambiato il suo nome.
Emmanuèle e sua sorella erano convinte che fosse stato lui a denunciarle alla polizia ed erano furiose. Per colpa sua sarebbe stato impossibile per loro accompagnare il padre in Svizzera. Ero affascinato e divertito da questo personaggio che non ho mai incontrato. Immaginavo che Gérard amasse sinceramente André e volesse salvarlo. Nel film Emmanuèle difende Gérard affermando che si era rivolto alla polizia spinto dall’amore.

Quanto si è sentito libero di prendersi delle libertà rispetto alla realtà raccontata nel libro?

Naturalmente non era mio desiderio tradire Emmanuèle. Ma avevo bisogno di fare mia la storia. Conoscevo Emmanuèle abbastanza bene da sapere che non si sarebbe offesa e non mi avrebbe censurato. Forse le sarebbe addirittura piaciuto il fatto che il personaggio di G.M. non fosse così malvagio in fondo. Era generosa nella sua scrittura con una tendenza ad ammorbidire la violenza e concentrarsi sull’umanità e sulla bellezza delle cose.

Emmanuèle e sua sorella Pascale sono molto vicine ma tra loro esiste anche un po’ di rivalità.

André chiese ad Emmanuèle di aiutarlo a morire, non a Pascale. Questo implica elementi sulla psicologia familiare che non erano espresse chiaramente nel libro e hanno solleticato la mia immaginazione. In verità Emmanuèle era sola quando ha ricevuto l’ultima telefonata dalla svizzera. Ma volevo mettere insieme le due sorelle anche se Emmanuèle aveva tenuto la chiamata per se stessa.

Quello che André sta chiedendo a sua figlia potrebbe sembrare inaccettabile ma la sua simpatica malizia lo rende irresistibile.

Certe persone hanno tanto carisma che è impossibile non amarle. Sono magari impertinenti e ciniche ma al tempo stesso così intelligenti, affascinanti e divertenti... André è una persona profondamente egoista ma è pieno di vita. Ha sposato Claude de Soria per attenersi alle convenzioni borghesi ma nonostante questo ha vissuto la sua vita come ha voluto, senza limitazioni, abbracciando la sua omosessualità. Ha fatto quello che desiderava.
Emmanuèle parlava spesso di suo padre, lo amava e lo ammirava. So che ridevano molto insieme. Lo percepiamo leggendo il libro ed era importante per me esprimerlo nel film.

È da tempo che lei desiderava lavorare con Sophie Marceau.

Sophie Marceau è un’attrice della mia generazione. In un certo senso sono cresciuto con lei e mi ha sempre interessato.
Mi è piaciuto filmarla ora che è poco più che cinquantenne. Questo film è una sorta di documentario su di lei allo stesso modo in cui Sotto la sabbia lo è stato su Charlotte Rampling. Non finge mai. È là, presente, accoglie le sensazioni ed esprime la propria sensibilità. In cucina con Serge, alla fine crolla e si rifugia fra le sue braccia. Non avevo scritto la scena in quel modo. Non volevo che piangesse, volevo risparmiare le sue emozioni per la scena della telefonata con la signora svizzera. Ma Sophie ha sentito la cosa diversamente e aveva ragione.

Ci parli della scelta di André Dussollier per interpretare “il vecchio incorreggibile”

Adoro André nei film di Alain Resnais. E in Il bel matrimonio di Rohmer. È rimasto subito entusiasta della storia e ha capito immediatamente il personaggio. Gli piaceva il suo umorismo impassibile, inglese e ha contribuito al suo ruolo con una deliziosa sfacciataggine. Gli ho mostrato dei filmati di André Bernheim in modo che potesse trarre ispirazione dalla sua personalità e dal suo modo di parlare. Il libro era molto preciso e abbiamo anche incontrato dei medici che ci hanno spiegato le diverse fasi delle conseguenze di un ictus per rendere l’interpretazione il più realistica possibile.
La precisione di André, la sua ossessione per la credibilità della sua interpretazione, il suo modo di parlare, sono tutti elementi che hanno contribuito a perfezionare il personaggio. Non aveva timori per quanto riguarda la sua immagine – ci ha permesso di radergli la testa e di deformare il suo volto con una protesi. Gli ho detto, “Quando il pubblico vede André per la prima volta deve essere scioccato e non credere che sei tu.” Volevo che la paralisi di André fosse pronunciata fin dall’inizio. Man mano che si avvicina alla morte la paralisi diminuisce e la verve e la gioia di vivere di André ritornano.

Questa è la terza volta che lavora con Géraldine Pailhas.

Ho pensato a Géraldine immediatamente per il ruolo della sorella di Sophie. Nelle loro carriere ci sono paralleli che rendono facile immaginarle come sorelle. Entrambe hanno iniziato con Claude Pinoteau e hanno lavorato con Maurice Pialat quando erano giovani. È stato ancora una volta un vero piacere lavorare con Géraldine. Capisce sempre subito che cosa voglio.
Si è immersa completamente nel personaggio di Pascale, e lei e Sophie sono entrate in grande sintonia. Sono persone molto diverse ma sono andate d’accordissimo.
Charlotte Rampling era la scelta ovvia per il ruolo della loro madre. È un ruolo minore ma chiave; la sua presenza è molto importante. E volevo mettere in luce Claude de Soria, l’artista. Queste motivazioni hanno convinto Charlotte oltre al nostro attaccamento a Emmanuèle per Sotto la sabbia.

E Hanna Schygulla nel ruolo della signora svizzera?

L’ho incontrata anni fa al festival di Amburgo, dove mi ha consegnato il Premio Douglas Sirk! La ammiro come attrice e mi è piaceva moltissimo nei film di Fassbinder.
Le ho chiesto in un primo momento se fosse in grado di riprodurre un accento svizzero-tedesco, ma il suo tentativo non era molto armonioso. E visto che mi piacevano il tono della sua voce e il suo morbido accento tedesco quando parla francese, le ho detto “Lascia stare l’accento svizzero-tedesco. Sarai una donna tedesca che lavora in Svizzera.”
Nel libro, Emmanuèle abbraccia la poliziotta. Ma io volevo che abbracciasse la signora svizzera, un bel personaggio, che trasuda un’umanità misteriosa.

Filmare un uomo costretto in un letto di ospedale deve presentare particolari problemi per un regista.

Certamente. Filmare un personaggio disteso in un letto d’ospedale implica una telecamera fissa e riprese ripetitive. Per fortuna c’erano parecchi cambiamenti di location. André Bernheim cambiò spesso ospedali e noi seguimmo quei cambiamenti. Iniziamo a Lariboisière, un ospedale pubblico, poi ci spostiamo in un ospedale più di lusso e infine approdiamo in una clinica privata. Questi cambiamenti ci hanno permesso di esplorare man mano diverse esperienze ospedaliere.

La scena della nuotata in Britannia è emblematica del suo desiderio di inserire vita nella storia ad ogni occasione.

Il film avrebbe potuto essere ambientato interamente in una stanza d’ospedale ma non volevo realizzare un morboso film medico a porte chiuse. André Bernheim era un uomo che stava decisamente dalla parte della vita. Il suo desiderio di morire nasce dal fatto che non può più vivere nel modo in cui ama vivere. Il film sta dalla parte della vita, come del resto il libro.
Ogni volta che potevo infondere alla storia un po’ di umorismo o ironia, l’ho fatto. È venuto naturale, con le situazioni e i personaggi. Ed era necessario. Quando giri un film che sta dalla parte della vita hai bisogno di ridere. Emmanuèle era molto divertente e amava ridere. E così anche suo padre a quanto pare. Condividevano una sorta di umorismo nero. Sono sicuro che le sarebbe piaciuto il fatto che ho filmato la scena che mi ha raccontato Pascale, in cui la Q cade dalla parola “coquille” nel ristorante della clinica, passando da ‘conchiglia’ a ‘coglione’.

Il film dà la sensazione di essere un diario, scandito da date.

Questa storia è un conto alla rovescia, quindi le date sono importanti. Soprattutto per André. È lui che vuole fissare una nuova data per la sua morte, dopo aver cancellato il primo appuntamento. La sua più grande paura è di perdere il senno e non possedere più l’autodeterminazione richiesta per decidere la propria morte. Le sue figlie non sarebbero più in grado di organizzare il viaggio se dovesse perdere la capacità di prendere la decisione consciamente. Man mano che ci si avvicina al giorno fatidico, sale la tensione: andrà fino in fondo con il suo piano? Cambierà idea?

I flashback conferiscono alla storia una dimensione temporale e illusoria.

Erano molto sorprendenti nel libro di Emmanuèle, lontani dal suo consueto stile di scrittura. Mi sono domandato davvero se dovessi conservarli e in tal caso come li avrei filmati? Volevo che fossero evocativi piuttosto che esplicativi. Reminiscenze della crudeltà di suo padre.

La fede ebraica viene evocata in particolare quando la cugina americana critica André per voler mettere fine alla sua vita dopo che tanti nella loro famiglia erano morti nei campi di concentramento.

Nella realtà, fu la sorella di André e non sua cugina a sopravvivere al campo di concentramento. Ho usato quel dettaglio per creare un episodio con sua cugina Simone. L’ho aggiunto, non era nel libro. Mi sembrava importante capire la decisione di André di morire in relazione alla sua storia familiare. Emmanuèle non mi parlò mai di questo.
André chiede di leggere il Kaddish al suo funerale per la bellezza della preghiera: lo chiede perché era un esteta, non perché fosse religioso.

Vuole aggiungere qualcosa, per concludere?

Sono contento di aver raccontato questa storia ma vorrei che Emmanuèle fosse ancora qui. Avrei desiderato tanto mostrarle il film. Era così franca, così onesta e colpiva sempre nel segno. Mi avrebbe dato la sua opinione che è sempre stata importante per me nel mio lavoro. Ciò che mi rende felice oggi è pensare che il film possa ispirare le persone a scoprire le opere di Claude de Soria e soprattutto a leggere o rileggere i libri di Emmanuèle.

l'INTERVISTA CON SOPHIE MARCEAU

E' da molto tempo che François Ozon desiderava lavorare con lei.

In passato, quando François aveva pensato a me non era ancora il momento giusto o il ruolo non era giusto, ma il desiderio di lavorare insieme era reciproco! I suoi film mi sono sempre piaciuti. È un regista eclettico, pieno di energia, curioso, con un occhio attento nell’osservare la società e le sue debolezze.
Mi aveva colpito in particolare Regarde la mer, era un film incredibile. Poi Sotto la sabbia, Swimming Pool... Mi è anche piaciuto molto Angel. Il protagonista era molto romantico, anche se non necessariamente molto simpatico ma che importa. È lecito fare film anche su persone egoiste come dimostra il personaggio del padre in È andato tutto bene!
Anche prima di aver letto È andato tutto bene ero pronta a far parte del progetto. Non potevo dire ancora di no a François! Poi il soggetto mi ha convinto e il progetto si è adattato a me come un guanto. I film sono il punto d’incontro di vari desideri: collaborare con un regista, interpretare un ruolo, esplorare un soggetto, fare un’esperienza in quel determinato momento… e questo film è stato il punto di intersezione di tutto questo.

Conosceva Emmanuéle Bernheim?

La conoscevo un po’, attraverso il suo lavoro come sceneggiatrice per vari registi ma non conoscevo i suoi libri. Quando François mi ha dato da leggere È andato tutto bene, ho scoperto una scrittrice in grado di immergerti con pochissimi dettagli nella psicologia e nel pathos della morte. La sua storia è radicale ma non è mai violenta né brutale. Semplicemente ti fa sentire che è una storia vera.
Sono rimasta colpita dalle somiglianze dei processi creativi di François e di Emmanuèle: hanno lo stesso istinto per raccontare storie attraverso i fatti, un buon ritmo, una meccanica perfetta. I loro personaggi potrebbero essere più analitici ma scelgono invece di affrontare la vita con umorismo e spontaneità, passando da una mostra d’arte all’altra, da un appuntamento per pranzo all’altro... Sono esteti pragmatici, non perdono tempo in convenevoli o a lamentarsi. “Niente piagnistei!”, come dice il padre alla fine.
Emmanuèle e François condividono anche l’arte di esprimere la vita attraverso dettagli concreti, usandoli come delle lenti attraverso le quali esplorare i grandi drammi delle nostre piccole esistenze e il nostro modo di affrontarli. Erano fatti per lavorare insieme!

Al centro del film c’è un padre che vuole farla finita.

Mentre lavoravamo al film mi immaginavo un vecchio indiano d’America che saliva sulla sua montagna per morire. Fa tutto parte di un rituale e qualcuno lo accompagnerà in quel rituale...
Io credo che l’eutanasia dovrebbe essere una scelta individuale. Dobbiamo prendere più sul serio il desiderio di morire. Fa parte del nostro patto con la vita. Non dobbiamo abbandonare le persone subito prima che muoiano. Questa storia mi ha mostrato come si possa morire con dignità in un Paese dove è ancora illegale farlo. Mi piace molto l’elemento crime, aggiunge una nota di suspense al film. Pascale ed Emmanuèle diventano delle fuorilegge che devono “seppellire il proverbiale cadavere”, che in questo caso non è neanche ancora morto! La situazione è quasi comica, quando nascondono André a casa di Emmanuèle e Serge.

Nonostante il soggetto così serio c’è in effetti parecchio umorismo nel film.

Le situazioni estreme come questa sono degli ottovolanti emotivi che si prestano a momenti comici e ad esplosioni di risate nervose o incontrollate. Il dolore è qualcosa con cui tutti noi dobbiamo confrontarci prima o poi nella nostra vita, quindi ci conviene imparare ad affrontarlo con una risata. André ci aiuta in questo. È così sfacciato e magnifico con il suo egoismo e i suoi capricci. Emmanuèle subisce la morte del padre, laddove lui, invece, l’ha scelta. Questo conferisce complessità al film e fa in modo che non diventi mai un film gratuitamente strappalacrime.
La decisione del padre colpisce Emmanuèle come una randellata in testa e l’immediatezza di questa reazione regala leggerezza alla storia. Lei deve entrare subito in azione e gestire una situazione paradossale, resa ancora più brutale da fatto che André si sta riprendendo dopo aver rischiato di morire. La sua decisione di farla finita una volta per tutte è come una seconda morte, proprio quando lei sta iniziando a sperare che il padre possa farcela.

La scelta di André è ancora più brutale perché è rivolta a lei, sua figlia.

Forse è questo il dovere dei figli... e in particolare delle figlie! Non è un caso che André abbia chiesto a Emmanuèle di aiutarlo a farla finita. Emmanuèle era così tenera e premurosa, in parte perché viveva con la paura di perdere questo padre in un certo senso irraggiungibile che viveva in modo egoista come fanno spesso i padri soprattutto di quella generazione.

La morte era sempre in agguato intorno a loro. Lui aveva tendenze suicide e lei fantasticava di ucciderlo quando era una bambina.

I bambini hanno paura della morte dei loro genitori, perché quell’eventualità sottolinea la loro vulnerabilità. La piccola Emmanuèle temeva anche che suo padre potesse spararsi un colpo in testa. Così, quando lui le chiede di aiutarlo a morire, questo fa scattare in lei i ricordi dell’onnipresenza della morte fra loro in tutti quegli anni. La situazione li riporta indietro nel tempo, nella loro dinamica storica e lei deve ancora una volta sottomettersi a suo padre, mettere al primo posto ciò che vuole lui. E ancora una volta, tutta la frustrazione che ne deriva dovrà restare inespressa. Ho capito appieno il fascino che i film dell’orrore suscitano in Emmanuèle: senza dubbio erano una valvola di sfogo per la sua rabbia repressa.

Emmanuèle è molto vicina a sua sorella.

Io ho solo un fratello, e mi è piaciuto molto dare vita al mio desiderio di avere una relazione con una sorella! Specialmente con Géraldine Pailhas. Mi piace come lavora. Forse abbiamo leggermente idealizzato la loro relazione, non so come fossero insieme nella vita reale. Ma questa crisi, sebbene abbia fatto scattare alcuni risentimenti, ha davvero portato alla superficie la loro complicità.
Scopriamo che Pascale potrebbe essere stata meno favorita da suo padre rispetto a sua sorella. Ma il loro padre è così originale ed egoista che hanno entrambe dei problemi nella loro relazione con lui. Problemi diversi, naturalmente ma ugualmente complessi e la loro complicità le aiuta a sentirsi meno sole nel sostenere i loro rispettivi fardelli. Anche il fascino e l’ammirazione che il padre evoca in entrambe le fa avvicinare. Possono ridere, prenderlo in giro e in questo modo scaricare la tensione.

Come si fa a impersonare un personaggio che è effettivamente esistito?

Personalmente non faccio davvero distinzione fra personaggi veramente esistiti e personaggi fittizi quando si tratta di interpretarli.
Era impossibile diventare una copia carbone di Emmanuèle. Fisicamente non ci assomigliamo affatto ed è irrilevante perché questa storia ha una forte spinta universale. Tuttavia ho trovato una grande corrispondenza con il suo gusto in fatto di colori e abiti e il modo in cui vesti ti aiuta a creare un personaggio. A Emmanuèle piacevano i colori poco appariscenti il blu, il grigio, il nero ed abiti pratici, comodi. E indossava spesso scarpe da ginnastica. Questo la dice lunga su di lei, su come era con i piedi ben piantati in terra, sulla sua filosofia di vita.

Ha sentito il bisogno di incontrare le persone che le erano vicine?

Avevo già incontrato Serge Toubiana, e l’ho visto una volta prima delle riprese ma non abbiamo parlato del film. Però ho letto il bellissimo libro che ha scritto su Emmanuèle, Les Bouées Jaunes, e questo mi ha aiutato a vedere Emmanuèle attraverso gli occhi dell’uomo che l’aveva amata. Me l’’ha resa più comprensibile e mi ha rivelato alcuni dettagli privati che mi hanno aiutato a conoscerla meglio.
Emmanuèle era molto innamorata del suo compagno che portava equilibrio nella sua vita. Con lui era più rilassata, riusciva a mostrare le sue fragilità, a sentirsi meno responsabile, a non essere solo Emmanuèle quella forte che non si lascia abbattere da nulla. È molto utile conoscere questi dettagli quando si interpreta un personaggio.

Come è stato lavorare con André Dussollier?

André, che attore! Mi ha fatto ridere, mi ha fatto piangere. Adoro il fatto che dopo tanti anni sia ancora così pieno di passione e un tale professionista. Ricrea in modo meraviglioso il fascino terribile eppure incredibilmente irresistibile del personaggio.
Questa è stata anche la prima volta che ho lavorato con Charlotte Rampling. Emana una luce così intensa. E poi è anche inglese, quindi mi ha conquistato completamente!
Per quanto riguarda Eric Caravaca, è affascinante e intelligente. Il personaggio di Serge ha una piccola parte ma lui lo rispecchia fedelmente: non è sempre presente ma è sempre amorevole, anche con le sue assenze. E stima profondamente il padre di Emmanuèle. Hanno un dialogo sempre ricco di umorismo sull’arte e sul cinema.

E come è stato lavorare con François Ozon?

Ogni regista ha il suo modo di lavorare. François è efficiente, chiaro, rigoroso. È organizzato e diretto. Una volta che tu capisci il significato di una scena non sta a soffermarsi sui dettagli psicologici.
François vive perennemente dietro una cinepresa anche nella vita! Ti osserva sempre. Non necessariamente per usare tutto quello che vede ma più per selezionare ciò che gli serve. Per trovare le sfumature adatte a te. Agli attori piace essere osservati in questo modo.
Con lui può esserci poca differenza fra prove e riprese. Ci mettiamo in posizione e iniziamo a provare e prima che tu te ne renda conto, si è immerso nella scena e ha iniziato a riprendere. Questo può essere disorientante in un primo momento ma devi continuare a muoverti insieme a lui. Tutti devono rigare diritto, dalla troupe agli attori, e non vuole che ci nascondiamo nelle nostre roulotte! Il set di François è come una corda tesa da cui non cadi mai. Il suo approccio esige una presenza di spirito reale e un’intensa concentrazione, ma questo fa anche risparmiare parecchio tempo ed energia.
Erano anni che non lavoravo e ritornare su un set, con questa storia intensa da raccontare, in compagnia di questi attori, di questa troupe e questo regista, mi ha reso così felice e ha rinnovato in me il desiderio di essere un’attrice.

l'INTERVISTA CON ANDRÉ DUSSOLLIER

Conosceva i film di François Ozon?

Sì e mi sarebbe piaciuto prenderne parte in qualcuno!
Capita raramente ad un attore di poter interpretare un ruolo come questo con un tale gruppo di lavoro.
Mi è piaciuto lo stile asciutto della sceneggiatura. Mi ha ricordato le ellissi del film Nella casa. E mi è piaciuta la sfida di interpretare un uomo che si trova in una situazione fisica difficile e che, nella vita reale, era il padre di un’amica di François. Ho cercato da subito di catturare la verità del personaggio.

Ha letto il libro di Emmanuèle Bernheim?

No. Non volevo sovraccaricarmi con confronti inutili. Il testo a cui dovevo fare riferimento era la sceneggiatura scritta da François ed era in quella sceneggiatura che dovevo calarmi. Se lui aveva scelto di omettere determinati elementi rispetto al libro è perché non li voleva nel film e non stava a me interferire con la sua scelta. Per lo stesso motivo non ho voluto incontrare nessuno degli amici o delle persone care ad André Bernheim.

Come si è avvicinato ad un personaggio che si trova in una situazione fisicamente e moralmente così disumana?

François mi ha fatto guardare alcuni documentari su persone che avevano scelto di morire con dignità. Ce n’era uno in particolare di una donna che non sembrava poi così malata. Nel documentario la seguiamo da casa sua al luogo in Svizzera dove va a morire. Sono rimasto enormemente colpito dalla sua determinazione di arrivare alla decisione finale e di portarla fino in fondo.
Per far sì che fosse credibile l’interpretazione fisica della malattia, abbiamo incontrato un medico all’ospedale di Lariboisière che lavora al centro di riabilitazione per pazienti colpiti da ictus. Me ne stavo seduto là, senza alcun trucco e ho iniziato a parlarle con la voce che avevo immaginato per il personaggio, per capire se fosse abbastanza realistica, per verificare se gli effetti della malattia sul mio modo di parlare fossero credibili.
Avevo anche a disposizione qualcosa di veramente eccezionale: il filmato che Emmanuèle Bernheim fece di André Bernheim, in cui André diceva di voler mettere fine alla propria vita. Era una risorsa straordinaria, una sorta di Bibbia per la mia interpretazione. Lo riguardavo ogni giorno, per assimilare il suo modo di essere e di parlare. Non per copiarlo – visto che non è così conosciuto – ma per trarre ispirazione dal suo spirito, per assorbire il ritmo, la sua dizione.

Quando la vediamo per la prima volta nel film lei è irriconoscibile.

Il trucco prostetico è uno strumento importante per dare vita ad un personaggio del genere. Tanto di cappello al lavoro dell’artefice Pop (Pierre-Olivier Persin) che ha creato il viso parzialmente paralizzato di André: i muscoli atrofizzati, le palpebre cadenti, il labbro rivolto verso il basso, la pelle inerte e il contrasto con il lato del volto non colpito dall’ictus.
L’applicazione di quelle protesi richiedeva due ore, due ore e mezza ogni mattina. Era una seccatura, e anche un pò doloroso, ma dovevo guadagnarmi il diritto di interpretare André Bernheim!

André è una figura carismatica nonostante le sue condizioni fisiche.

André è tutto tranne che un personaggio patetico. Ogni volta che si sente meglio, le sue figlie si rallegrano e sperano che possa cambiare idea, come succede nove volte su dieci. Ma lui rimane fermo nella sua decisione di voler morire, nonostante le sue condizioni di salute siano migliorate! Non c’è nulla che possa fargli cambiare idea. Questo mi ha colpito molto. Non credo che sarei capace di guardare la morte negli occhi come ha fatto lui. È una di quelle persone completamente oneste con se stesse. Si mostra per quello che è, non indossa una maschera e non si nasconde dietro le convenzioni. André ha una personalità forte, sincera e diretta e restiamo colpiti da questa autenticità, per quanto posa essere difficile da sostenere.

André può essere spregevole, per esempio quando accusa falsamente le figlie di volersi liberare di lui!

Mi sono divertito a interpretare il ruolo! André è come un bambino cresciuto. Cerca in ogni modo di evitare di affrontare l’ira delle sue figlie – e la Q cade dalla parola “coquille” proprio nel momento giusto! Il suo comportamento ci aiuta anche a capire quanto lui fosse stato un cattivo padre quando le sue figlie erano piccole. E continua ad esserlo quando dice a Emmanuèle, “Eri una bambina così brutta!”. È stato molto divertente poter dire cose che di solito le persone non dicono. André è uno di quei personaggi liberatori. Credo che faccia lo stesso effetto sul pubblico, alleggerisce il peso delle convenzioni e la serietà dell’argomento affrontato dal film.

André mostra anche una robusta vitalità fisica con i giovani uomini che incontra.

Mi piace molto il fatto che André non si privi di nulla. François mi bisbigliava all’orecchio “Guarda quel bell’infermiere che sta passando!” Mi provocava con delle battute che non erano scritte, e sapeva che non mi sarei sottratto perché mi sono sempre piaciute le sue idee improvvisate. La scena in cui un aiuto infermiere lava André è una di queste. Quell’immagine, nonostante provenga da una persona discreta come François, è così cruda, vera e bella.

André chiede a sua figlia di aiutarlo a morire, è una richiesta piuttosto scioccante.

Potrebbe sembrare malvagio o morboso chiedere alla tua figlia preferita – che fra parantesi più di una volta ha pensato di ucciderti – di aiutarti a farla finita. Ma io lo vedo più come un gesto d’amore. Lo chiede a lei, in modo specifico, perché tra loro c’è un legame speciale, complesso e privilegiato. La loro relazione è unica e sincera. Ed è proprio la qualità del loro legame che impedisce al film di scivolare nel melodramma.

Come è stato lavorare con Sophie Marceau?

Gioia pura. È una persona così vitale. È una stella del cinema ma sul set è così semplice, spontanea e genuina. Credo che questo suo modo di essere traspaia dal film. C’è stato un momento, durante le riprese, che mi ha davvero commosso. Quando Emmanuèle filma suo padre con il cellulare per la seconda volta, Sophie aveva le spalle rivolte alla telecamera ed io stavo recitando la mia parte. Ha iniziato a piangere. Immaginavo che François avrebbe girato la telecamera per filmarla ma non lo ha fatto. E lei stessa non si aspettava che lo facesse, si era emozionata veramente.
Anche Géraldine Pailhas è una persona molto speciale. Il suo sguardo benevolo, la sua presenza, la sua gentilezza mi hanno davvero aiutato.
E lavorare di nuovo con Charlotte Rampling, come mi piace il suo senso dell’umorismo!
E poi c’è Hanna Schygulla, che interpreta in modo sublime la serena signora svizzera che organizza la solenne dipartita di André senza la minima traccia di affettazione o pathos. Ho lavorato con lei in teatro nella commedia di Jean-Claude Carriére, L’Aide Mémoire. È stato divertente lavorare di nuovo con lei. Il casting del film è molto inventivo, arricchisce i personaggi e trova in loro una perfetta corrispondenza.

Si dice che François Ozon lavori molto rapidamente.

La parte difficile per noi attori in generale, o almeno per me, è tutto il tempo che dobbiamo aspettare sul set che la troupe tecnica finisca di preparare le scene. Recitare è come essere una pentola a pressione che sta per esplodere, che vuole trovare la liberazione, volare... Quindi mi piace molto che François sia veloce. È rapido, ma anche rispettoso. Prova tutto ciò di cui ha bisogno ma non resta mai impantanato in cose futili. In un certo modo mi ricorda Alain Resnais. Ho usato il “Lei” formale con entrambi, e con entrambi ho condiviso la stessa meravigliosa sensazione di amicizia attraverso il lavoro. Molto più significativo dei segni di affetto superficiali che ormai sono presenti ovunque. François vive attraverso il suo lavoro. È con il lavoro che sente le cose, che si rapporta alle persone e che impara a conoscerle. Sono convinto che non ci sia modo migliore per conoscerlo che lavorare insieme a lui.

E il fatto che stia dietro la cinepresa?

È il primo regista con cui lavoro che lo fa. Ho pensato che fosse stupendo vederlo dietro la cinepresa. È come se fosse il primo spettatore, va sempre in giro sul set con la cinepresa, Non gli sfugge nulla. Ti dà la sensazione che sia in grado di catturare la vita stessa senza perderne un attimo. E questo ci sprona a mostrargli ogni aspetto possibile del personaggio. Sentire che fa insieme a noi l’esperienza di ciascuna ripresa aumenta il nostro piacere di recitare.
“L’essenza sta nel dettaglio.” Un giorno ho mandato a François questa frase perché mi ricordava i suoi film. Non trascura mai i piccoli momenti che sono parte della vita: al contrario, quei momenti sono il cuore dei suoi film.

INTERVISTA CON GÉRALDINE PAILHAS

Questa è la terza volta che lavora con François Ozon.

È un tale piacere per un’attrice lavorare sul suo set, far parte del suo universo ed essere considerata una dei suoi collaboratori abituali.
Mi commuoveva sapere che questo suo nuovo film fosse l’adattamento del libro di Emmanuèle Bernheim, che François avesse deciso di prolungare la sua relazione con questa cara amica creando la versione cinematografica del romanzo e che avrebbe sicuramente raccontato la storia in modo fedele. Ero così commossa ma François mi ha detto “Non piangere, faremo un bellissimo film!”

Conosceva Emmanuèle Bernheim?

Quando Maurice Pialat morì, Sylvie Pialat raccolse i suoi amici per piangerlo insieme. Organizzammo dei turni, condividendo quei tre giorni di lutto come una tribù, raccolti intorno al corpo di quest’uomo che tutti avevamo amato tanto. Emmanuèle e Serge erano fra quegli amici. Questo creò un legame tra di noi. Dopo di allora, mi ero spesso imbattuta in Emmanuèle sull’autobus numero 63. A volte parlavamo, soprattutto della morte dei nostri padri, che morirono a poca distanza l’uno dall’altro. Ricordo che parlammo anche di François.

Ha letto È andato tutto bene?

Certamente, in due ore, l’ho letto tutto d’un fiato! È un libro molto importante nella mia vita di lettrice e credo che la sceneggiatura sia molto fedele al libro.
Abbiamo contribuito con alcune delle nostre idee mentre eravamo sul set. È la famosa fase in cui i personaggi prendono corpo e per François è molto importante. Ascolta i suoi attori e prende in considerazione i loro suggerimenti. Gli piace passare in rassegna l’intera gamma delle emozioni. Ci ha fatto girare le scene in una miriade di modi, a volte spingendole fino agli estremi, andando dall’ilarità sfrenata fino alla disperazione totale. Per un attore è molto stimolante, specialmente per chi come me ha molta fiducia in lui. Lui poi trova la giusta misura e sceglie le riprese che gli servono per mantenere tutto coerente e armonioso. Oppure per renderlo stridente, disarmonioso o tagliente, se questo è ciò che pensa sia meglio. Lavorare in questo modo è come un gioco e gli offre la gamma di emozioni che gli servono.

Ha incontrato la vera Pascale Bernheim?

Il mio legame con Emmanuèle Bernheim e Serge Toubiana, la mia relazione con il libro e ciò che sapevo dell’amicizia fra François ed Emmanuèle sono già elementi forti che mi aiutano a ricostruire il personaggio. Quindi ho preferito mantenere la mia idea di Pascale come l’avevo immaginata leggendo Emmanuèle e François. E visto che lei non ha espresso il desiderio di incontrarmi, mi sono sentita autorizzata a creare il personaggio basandomi sulla mia immaginazione. So che ci incontreremo quando uscirà il film, e questo mi commuove.
Inoltre, visto che Sophie non ha potuto incontrare Emmanuèle era più importante creare un legame vero e tangibile fra noi due, sorelle nella finzione, piuttosto che aderire alla realtà.

Al di là della complessità del contesto familiare e della situazione, Pascale ed Emmanuèle sono molto vicine.

Il legame d’infanzia fra le due sorelle era un fattore importante nel libro. Sembravano delle eroine proprio come nei libri della Banda dei Cinque! Ogni tanto si scambiano delle parole dure, Pascale deve ingoiare qualche pillola amara e stringere i denti a volte, ma c’è un tale rapporto di fiducia fra le sorelle che non sembra mai risentire del fatto che Emmanuèle è chiaramente la preferita del padre. È un dato di fatto. Non sono in competizione fra loro. Abbiamo la sensazione che dovessero mantenersi unite per affrontare un padre come il loro e la coppia che formava con Claude la loro madre.

Lui chiede ad Emmanuèle di aiutarlo a morire, non a Pascale.

Immagino che essere amata meno di sua sorella fosse doloroso per Pascale. Ma potrebbe anche essere stato salvifico, permettendole di sfuggire all’amore divorante e piuttosto mostruoso del padre e a tutte le richieste che questo comportava. Sebbene non sia questo il punto della storia, non posso fare a meno di pensare che Pascale abbia trovato un modo per scappare dalla sua famiglia quando si è creata una famiglia propria.
Nel modo in cui volevo sperimentare il film e il mio personaggio, mi sono detta che sebbene Pascale sia la meno amata in famiglia, non sente rabbia né rancore per questo. I genitori, in genere – a dispetto di quanto possano dire a se stessi o fingere – non sono in grado di sentire lo stesso livello di amore per ciascuno dei loro figli. Se non lo accettiamo, rischiamo di trascorrere la nostra vita intera sentendoci delusi. Il meglio che possiamo fare è venirci a patti, come Pascale fa nel film.

Questa è stata la prima volta che ha lavorato con Sophie Marceau?

Le nostre strade si erano quasi incrociate una volta o due, ed è in effetti piuttosto sorprendente che non sia successo più spesso. Quando ci siamo incontrate nell’ufficio di François per le prove degli abiti, Sophie mi ha preso il viso fra le mani e mi ha detto, “Aspetta, lasciati guardare!” Ho trovato la sua espressione di tenerezza così spontanea e genuina e non ero affatto sorpresa: me l’ero immaginata proprio così.

Avete parlato dei cineasti con cui avete entrambe lavorato, Claude Pinoteau e Maurice Pialat?

La prima volta sì, come se volessimo confrontare le nostre rispettive esperienze. Poi è stato come se volessimo cancellare le nostre storie passate, per collaborare a questo progetto partendo da zero come attrici di François Ozon. Abbiamo stretto un’amicizia intima, fatta di complicità, come Emmanuèle e Pascale. L’ultimo giorno delle riprese ci siamo rese entrambe conto che avevamo avuto poche opportunità di avere una o più sorelle nei nostri film. Ci siamo veramente godute il nostro rapporto di sorelle per quelle poche settimane. François ci ha visto proprio giusto ad affiancarci.
Abbiamo riso parecchio anche con André. Sentivamo il suo entusiasmo nell’interpretare quel vecchiaccio maledetto. E più accentuava il suo comportamento da vecchiaccio maledetto, più mi faceva ridere. Riesce a comunicare uno spirito giovanile, una qualità cristallina che è proprio tutta sua. Quel padre non è solo un riccone freddo e cattivo che fa rigare tutti diritto e che non accetta rifiuti. Alla fine ci conquista tutti grazie all’interpretazione di André che trasferisce al suo personaggio il suo fascino, la sua profonda umanità.

Il film ha al centro una questione sociale che viene però affrontata da un’angolazione molto intima.

La maggior parte degli esseri umani farebbe qualsiasi cosa in loro potere per evitare la morte, per quanto inevitabile essa possa essere. È una cosa istintiva. Ho visto sia persone care che conoscenti combattere contro la morte fino all’ultimo, persone che avevano bisogno di sentirsi dire che era arrivata l’ora fatidica perché riuscissero a lasciarsi andare e accettare la fine. Questo ha avuto un grande impatto su di me. Personalmente, credo che dovrebbero esserci leggi e strutture che permettano agli individui di decidere liberamente quando vogliono morire. Quello che ci disturba, in questa storia, al di là delle questioni etiche che naturalmente meritano di essere dibattute è che ci troviamo davanti ad un padre che chiede alle sue figlie di organizzare la sua morte. Ad un certo punto, sia le sorelle che il pubblico sono convinti che rinuncerà al suo progetto. Sta meglio, non soffre più, ricomincia a mangiare normalmente e a sentire il piacere della vita. La crudeltà di questo padre arriva al culmine quando si scopre che è deciso a portare avanti il suo progetto terribile a dispetto di tutto.
Questa storia molto personale offre al pubblico moltissimi spunti per riflettere sulla morte, sulla sua presenza nelle nostre vite o magari, al contrario, sulla sua negazione. Non c’è nulla di più intimo della nostra relazione con la vecchiaia dei nostri genitori, quando arriva il momento in cui non sono più autonomi, quando si verifica un’ironica inversione delle traiettorie.

Nonostante la drammaticità del tema, il film è pieno di umorismo.

L’approccio di François è così umano, così tenero, così intelligente. Non c’è cinismo e nemmeno una gioia morbosa o sadica nel modo in cui esplora la morte. Racconta la storia dal punto di vista delle due donne che cercano di riuscire nel compito di rimanere se stesse. Due donne, con non più risorse delle nostre e che hanno voglia di continuare a ridere insieme, che altra scelta avrebbero potuto fare? Che scelta ha, ciascuno di noi, in circostanze così drammatiche?

EMMANUÈLE BERNHEIM

Emmanuèle Bernheim è la figlia del collezionista d’arte André Bernheim e della scultrice Claude de Soria. Scrittrice, saggista e sceneggiatrice francese, è nata il 13 dicembre del 1955 a Boulogne-Billancourt. È morta il 10 maggio del 2017 a Parigi. Autrice di “Il coltello a serramanico” nel 1985 e di “Una coppia” nel 1988, nel 1993 ha vinto il Prix Médicis per il suo romanzo “Sua moglie”. Ha collaborato con François Ozon alle sceneggiature di Sotto la sabbia, Swimming Pool, CinquePerDue - Frammenti di vita amorosa e Ricky - Una storia d'amore e libertà.
Il suo romanzo “Quel venerdì sera “(1998) è stato adattato in un film dallo stesso titolo diretto da Claire Denis.
Poi lavorò con Alain Cavalier all’adattamento del suo libro, È andato tutto bene, intitolato Être vivant et le savoir. Le fu diagnosticato il cancro durante questo progetto, che in seguito alla sua morte divenne un documentario.

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